Fuochi nell’ombra. Uso di immagini d’arte in psicoterapia individuale e di coppia ad orientamento sistemico-relazionale

di Conny Leporatti

Farai le figure in tale atto il quale sia sufficiente
a dimostrare quello che la figura ha nell’animo;
altrimenti la tua arte non sarà laudabile.
Leonardo da Vinci, Libro della pittura

1. Introduzione

Tra i notevoli tributi da annoverare ad uno dei più grandi geni dell’umanità, vi è l’abilità con cui Leonardo da Vinci ha introdotto la fisiognomica nell’epoca moderna. Arte antica, riconducibile ad Aristotele, la fisiognomica ha conosciuto una costante evoluzione e, nelle mani di Leonardo da Vinci, ha assunto un aspetto innovativo. Lo studio dei moti dell’animo da lui compiuto, a partire dai tratti del volto, ha preannunciato ed accompagnato lo sviluppo della psicologia, parimenti ne è scaturito un lavoro di studio e di ricerca, compiuto dai pittori, nel corso della storia
dell’arte occidentale. All’interno dell’enciclopedia pittura vi è un quadro, che segna un’epoca. Dipinto cinque anni prima degli studi di Freud sull’isteria, e dieci anni prima dell’uscita dell’Interpretazione dei sogni, Il ritratto del dottor Gachet di Van Gogh, eseguito nel 1890, riporta ad un’opera di Dürer, una stampa in cui l’artista tedesco rappresenta l’immagine canonica della “melanconia” (Caroli, 1987).
Negli anni seguenti, arte e psicologia risultano amalgamate al punto da dare vita ad una linea continua che segna il cammino dell’arte fino alle opere di Pollock e Bacon. Ne sono un esempio le note raffigurazioni dei Folli di Géricault, le devastazioni fisiognomiche di Van Gogh ed il saggio epocale l’Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud. Flavio Caroli (1987), profondo conoscitore dell’arte e della fisiognomica, offre un’interessante spunto di riflessione, secondo cui “l’arte, grazie alla sua enorme potenzialità simbolica, crea, definisce, assorbe e talvolta anticipa i movimenti della civiltà di ogni tempo”. Gli studi in merito hanno permesso di asserire che gli artisti conoscono intuitivamente ciò che l’analista comprende solo attraverso un faticoso processo; pertanto, tutto quanto la psicanalisi giunge a scoprire ha già avuto appropriata intuizione e trasposizione metaforica nel campo dell’arte.
La nascita della psicanalisi affonda le proprie radici nel legame che essa ha con un’opera letteraria: l’Edipo di Sofocle. Nel corso dei suoi studi, Freud (1985) giunge a concepire la creatività come sublimazione di pulsioni sessuali represse; di conseguenza egli ritiene necessario e fondamentale compiere un’interpretazione dell’opera d’arte secondo criteri psicanalitici.
Melanie Klein (1958), invece, scorge nel processo creativo l’espressione diretta della pulsione riparatoria, alla base della posizione depressiva (D). Successivamente, in un saggio del 1958, la Klein propone una nuova visione dell’arte in cui viene rivalutato il ruolo della posizione schizoparanoide (Ps) nella creazione artistica; avvertendo la necessità di integrare assieme i due ruoli che la posizione depressiva (D) e schizoparanoide (P) hanno nel processo creativo, la psicanalista austriaca pone le fondamenta per la teoria della creatività,la quale, successivamente, viene definita da Bion e Meltze in modo esplicito (Pecorari, 2005). Bion (1973), nota figura di spicco della ricerca psicanalitica, situa l’arte al centro del processo di apprendimento ed indica nella produzione simbolica la modalità creativa dell’evoluzione psichica. Secondo l’autore, la profondità del legame che unisce psicoanalisi ed arte ravvisa, nelle emozioni, il cuore della vita mentale e, nel pensiero metaforico, lo strumento cognitivo da cui dipende lo sviluppo della personalità.
Le ricerche condotte da Bion (1993) e Meltzer (1996) generano una psicoanalisi improntata epistemologicamente, secondo la quale, le origini stesse della formazione del pensiero e dello sviluppo mentale, sono da ricondurre alla relazione tra la madre ed il neonato; tale legame pone le basi per indagare le dinamiche fondamentali del pensiero e dello sviluppo mentale in relazione ai processi simbolico-creativi, riconducibili a quelle di produzione e fruizione artistica. Sulla base di quanto asserito, la seguente esemplificazione traduce chiaramente l’assunto degli autori: l’artista formula interpretazioni con le quali fornisce una forma psichica preliminare che suscita nel paziente pensieri ed emozioni, ancora non consapevoli. Analogamente, nel setting clinico, il terapeuta sistemico relazionale usa il proprio sé, fondamentale per la relazione terapeutica, ponendo al paziente domande e costruendo con lui nuove possibili letture del contesto e delle relazioni, di cui il paziente stesso è l’artefice.
L’orientamento psicanalitico, invece, prevede l’utilizzo dell’interpretazione da parte dell’analista, cosicché il paziente disponga di una forma psichica preliminare tale da avviare, nella sua mente, un campo di possibilità, significati da completare, emozioni, pensieri ed esperienze non ancora realizzati. Pertanto, se l’arte anticipa e stimola lo studio e la riflessione sui moti dell’animo umano, perché non tornare all’arte per stimolare, svelare e rendere consapevole l’uomo di tali moti? Lo scopo del presente lavoro consiste nello stimolare riflessioni intorno all’uso di immagini d’arte in terapia – nello specifico in terapia di coppia e individuale – ad orientamento sistemico-relazionale. Si rende necessaria la definizione della cornice teorica. Per la definizione di terapia individuale sistemica si rimanda al lavoro di Loriedo, Angiolari, De Francisi, in Terapia Familiare n. 31, 1989 e al lavoro di Boscolo e Bertrado, Terapia Sistemica Individuale (Raffaello Cortina, 1996). Per l’approccio alla definizione di terapia relazionale si rimanda ai lavori di Rodolfo De Bernart in Terapia Familiare, n. 31 (1989). Alla cornice teorica relativa alla terapia sistemica si connette la dimensione relazionale : il ruolo svolto dalle relazioni familiari, nella prospettiva indicata da Bowen (1979) nel lavoro Dalla famiglia all’individuo, la relazione con il sé, con il mondo interno, con l’inconscio ottico, così come definito da Walter Benjamin (1931). Egli confermava l’importanza della fotografia, poiché mediante questo valido strumento si scopre l’inconscio ottico, uno spazio elaborato non consapevolmente dall’uomo. Ciò fu approfondito, in un secondo momento, nel rapporto con l’arte del ‘900 da Rosalind Krauss (1994). Giorgio de Chirico (1888-1978), principale esponente della pittura metafisica, sin dall’inizio del suo percorso, asserisce che lo scopo della pittura consiste nel “far vedere ciò che non si può vedere”, piuttosto che riprodurre più o meno bene ciò che già vediamo in natura. Secondo il noto pittore italiano, la pittura si rivela un mezzo efficace mediante il quale si trasferiscono e si ricreano emozioni, ma soprattutto si stimolano nello spettatore, le stesse intuizioni esperite dall’artista sul significato profondo del mondo e delle cose. Daniel Stern (2005), mediante i suoi studi sul momento presente e sull’implicito in psicoterapia a seguito delle sue riflessioni – secondo le quali la maggior parte di ciò che conosciamo del nostro rapporto con gli altri, compreso il transfert, è non verbale, non simbolico, non narrato, non cosciente e inconscio ma non rimosso –, offre un ulteriore contributo teorico, implicitamente relativo all’uso delle immagini d’arte in terapia. Nel lavoro Momento presente in psicoterapia e nella vita quotidiana, Stern focalizza l’attenzione sulle esperienze interne ed immediate, che durano soltanto pochi secondi, ma che determinano intuizioni fondamentali sulla psiche, sull’intersoggettività e sulla natura stessa dell’esperienza. Infine, dal punto di vista teorico, l’uso dell’immagine in terapia sistemica giunge da lontano: si riportano in tal proposito le suggestioni di Bowen (1979) legate al genogramma familiare, il lavoro di Maurizio Andolfi (1977, 1985), Luigi Onnis (1990) e Philippe Caillé (2005) sulla scultura ed il lavoro di Rodolfo De Bernart (1989) sulle tecniche non verbali, in particolare sul genogramma fotografico, sull’uso del collage e del disegno congiunto. I contributi teorici sopracitati offrono una visione organica del contesto in cui opera la terapia sistemico-relazionale, ove il terapeuta esplora assieme al paziente il suo sistema familiare, la relazione con il sé, con il mondo interno e con l’inconscio ottico, usando il proprio sé – nella prospettiva indicata da Minuchin – nella dinamica del sistema coppia-terapeuta o individuoterapeuta e nel “qui e ora” della terapia. Tale esplorazione può avvenire anche per mezzo dell’uso di immagini, come nel caso del mio lavoro con le immagini d’arte.
2. Immagini e terapia
Sovente la comunicazione verbale risulta essere più controllabile della comunicazione non verbale. Ciò significa che spesso, involontariamente, si possono creare barriere nella comunicazione, per cui il paziente non riporta ciò che gli sta a cuore anche perché spesso egli stesso non ne ha consapevolezza e si perde nell’argomentazione di elementi superflui o dispersivi. Rodolfo de Bernart1 (1984), sostiene che per un terapeuta familiare vedere è tanto importante quanto sentire. Dal confronto tra ciò che egli vede e ciò che sente, il terapeuta realizza una più complessa lettura della comunicazione in terapia. Per questo motivo all’Istituto di Terapia Familiare di Firenze si usano, da più di venticinque anni ormai, diverse tecniche d’immagine in terapia, quali collages, foto, genogrammi, oggetti metaforici, films. Il terapeuta conduce una ricostruzione tra ciò che i pazienti dicono – l’immagine esterna – e ciò che i pazienti esprimono non verbalmente – l’immagine interna – e da tale ricostruzione, in cui emergono dissonanze e discrepanze, egli crea ipotesi relazionali il cui livello di accuratezza diventa più evidente con il progredire del processo terapeutico. Katia Giacometti asserisce che l’immagine tende ad offrire un primo livello di rappresentabilità, per mezzo del quale, tra il soggetto e la sua storia relazionale, si stabilisce una distanza che favorisce l’ascolto, la pensabilità ed il dialogo. L’immagine rivela l’accesso a mondi interni, non facilmente raggiungibili e spesso difesi dall’uso del canale verbale. Lo strumento iconico è di per sé già un modo di dare rappresentabilità a qualcosa che per il soggetto si manifesta a livello di vissuti e di agiti, ed insieme un modo di articolare parti di sé e dell’altro secondo un’elaborazione soggettiva. Sulla base di questi presupposti, ed influenzata dal lavoro e dalle mostre curate da Flavio Caroli dal 1980 ad oggi, ho iniziato, dagli anni ’90, ad usare le immagini d’arte nella clinica, sia individuale, che familiare, che di coppia.
2.1. Uso di immagini d’arte in terapia
L’uso che faccio delle immagini d’arte in terapia nasce, quasi casualmente, da un’intuizione legata ad una faticosa terapia individuale che segnava il passo da tempo, dall’amore che da sempre mi lega all’arte e dalla formazione personale effettuata presso l’Istituto di Terapia Familiare di Firenze. Come terapeuta, ho lavorato per l’intero quadriennio di formazione in psicoterapia sull’uso del canale non verbale e dell’immagine in terapia. Foto, collage, genogramma e scultura hanno costituito tanta parte della mia esperienza formativa, consentendomi di sviluppare ulteriore sensibilità nei confronti di tutto ciò che è “visivo”, nell’ambito della cornice teorica di cui parlavo in premessa. Amo l’arte da sempre, sin da piccola ho avuto la fortuna di frequentare artisti e mostre di pittura, appassionandomi all’arte figurativa ed al suo codice. Così, nel corso della vita, ho raccolto cataloghi museali provenienti da tutto il mondo e li ho tenuti in studio, quasi fossero un potenziale rifugio per i momenti più faticosi, come a volte rileggere alcuni passi di certi libri può esserlo. Alcuni pazienti hanno notato i cataloghi e me ne hanno chiesto la provenienza; altri no. Un piovoso pomeriggio di novembre dei primi anni ’90, nel corso di una terapia individuale che sembrava essersi inspiegabilmente arrestata senza motivo, come se continuare a parlare non facesse altro che continuare ad erigere mura invalicabili, mentre cercavo un mezzo per by-passare le chiusure e la difesa inconsapevole della paziente, vidi – nel senso di “vedere” – i cataloghi d’arte e pensai di chiedere alla paziente di prenderne alcuni e di sfogliarli, alla ricerca di un’immagine che la rappresentasse. Inizia così l’uso che faccio delle immagini d’arte in terapia. Ho continuato nel tempo ad usare le immagini d’arte ed ho definito meglio la procedura.
Ad oggi esse sono riunite in un book realizzato insieme a Rodolfo de Bernart, con la collaborazione di Michal Dusik per la parte grafica. Il book si compone di 200 immagini suddivise per 20 categorie (bambino, casa, cibo, coppia, disturbi del comportamento alimentare, famiglia, fratelli, genitori, gioco, individuo maschile, individuo femminile, identità di genere, lavoro, madre, malattie, morte, nonni, padre, sessualità, vecchiaia).
È stata pensata una somministrazione globale ed una somministrazione ridotta, per 5 categorie, sia per la terapia individuale, che per la terapia di coppia, che per la terapia familiare.
Sono stati inoltre individuati gruppi di 5 categorie suddivise per la somministrazione per patologia (disturbi del comportamento alimentare, psicosi e borderline, depressione, attacchi di panico, nevrosi, disturbo ossessivocompulsivo, coppia con disfunzioni sessuali, fobia scolare, disturbi del comportamento, deficit dell’attenzione ed iperattività). Le scelte delle immagini da includere nel book sono state determinate sia dalle immagine scelte prevalentemente dai pazienti negli anni, sia da scelte soggettive, sia mie che di Rodolfo de Bernart. In terapia la mia richiesta è la seguente: “Scelga un’immagine d’arte che sente possa rappresentarla o rappresentare i suoi stati d’animo”. Lascio che i pazienti sfoglino liberamente e senza fretta i cataloghi disponibili. Sono disponibili immagini d’arte dall’epoca di Leonardo da Vinci ad oggi, attualmente esposte nei più noti musei del mondo: gli Uffizi, la Galleria Palatina, i Musei Vaticani, la Pinacoteca di Brera, il Louvre, il Prado, la National Gallery, la Tate Gallery, l’Osterreichische Museum di Vienna, il Rijkmuseum ed il Van Gogh Museum di Amsterdam, l’Hermitage, il Gugghenheim Museum, ecc. Il lavoro successivo alla scelta delle immagini, è un lavoro di connessione tra le immagini scelte, le motivazioni di questa scelta, le emozioni connesse a quelle immagini, l’immagine in relazione con il sé, con il mondo interno, con l’inconscio ottico, con le relazioni familiari, col sistema terapeutico. La connessione avviene per mezzo di domande circolari che pongo come terapeuta, connettendo le informazioni che i pazienti mi hanno fornito della loro storia con i pattern comunicativi che hanno caratterizzato la narrazione e quanto le immagini scelte suscitano in me, in base alle ipotesi che ho elaborato ed al mio “stare” in terapia, secondo l’uso del mio Sé, della mia storia di terapeuta e della mia formazione. È evidente quanto è presente in tale prospettiva dell’impostazione di Minuchin (1976) relativa al lavoro in formazione sulla persona del terapeuta. Nelle sedute successive si lavora sulle emozioni conseguenti alle scelte delle immagini compiute e sugli eventi e gli stati emotivi con i quali le immagini entrano in risonanza. L’immagine è un modo alternativo di articolare le parti dell’Io e degli altri da una più profonda prospettiva soggettiva. Chiedo al paziente di scegliere un’immagine che, secondo lui, possa rappresentare meglio se stesso o il suo stato d’animo; successivamente lascio che il paziente sfogli liberamente, e senza fretta, i cataloghi disponibili. Lavoriamo insieme sull’immagine scelta. Se si tratta di una coppia chiedo prioritariamente all’uno di “leggere” l’immagine scelta dall’altro, che cosa egli ritiene significhi per il proprio partner, quali vissuti di coppia essa attivi, che senso essa abbia nella loro storia relazionale. Chiedo poi a ciascuno di esprimere per se stesso qual è l’intento che egli ritiene abbia motivato in lui quella scelta e quanto si è sentito compreso dalla lettura che il partner ha condotto dell’immagine da lui scelta. Sulla base di quanto esposto, intendo adesso presentare due casi, uno di terapia individuale e l’altro di terapia di coppia.
2.2. Il caso di Fr
ancescoFrancesco è oggi un giovane uomo di 27 anni; lo incontro per la prima volta all’età di 19 anni, iscritto al primo anno della Facoltà di Lettere, su invio di un collega, terapeuta di un amico di Francesco. Il ragazzo riferisce di essere omosessuale e di vivere un senso di solitudine e di diversità che prova fin dall’infanzia. Chiede sostegno per parlare con la sua famiglia – composta da padre, imprenditore 51enne, madre, insegnante 47enne; sorella, di quattro anni maggiore di lui – della sua omosessualità. Dichiara di vivere stati d’ansia che gli provocano attacchi di panico, attacchi che stanno condizionando sempre più la sua vita, limitandone gli spostamenti, ma che per ora affronta senza copertura farmacologia. Iniziamo insieme un lavoro sull’identità di genere e le relazioni con la famiglia e il mondo amicale. In seguito utilizzo le immagini d’arte. Queste le prime immagini che Francesco sceglie:
Fig. 1 – Ensor, Fanciulli che si lavano, 1886
Dice: “Siamo io e Paolo (l’amico il cui terapeuta ha fornito a Francesco l’indicazione di rivolgersi a me, n.d.r.), quando giocavamo da ragazzi. Perlui era un gioco, per me No… ma tanto non mi vuole”.
Fig. 2 – Schiele, Autoritratto con braccia sollevate da tergo, 1912
Dice: “Sono io ora. Giro le spalle al mondo perché non voglio farmi vedere e ho paura…ho le braccia alzate per parare i colpi al viso che mi arrivano…” Penso all’innamoramento di Francesco per Paolo e al cocente rifiuto che ha subito, al suo voltare le spalle al mondo, alla connessione tra immagini di spalle e omosessualità. Decido di lavorare con Francesco sulla connessione tra gli stati emotivi provati ed i contesti che li hanno determinati e sull’ambivalenza nella relazione, a partire dalla relazione terapeutica. Successivamente, nel corso del lavoro sulle relazioni familiari, sceglie le immagini che seguono: di Savinio sceglie I genitori, del 1931. Dice: “Sono animali, composti ma animali…non vedono, non sentono, non parlano… Lei vede ma non chiede… lui, a pugni stretti, non mi tocca… se la rabbia potesse incenerire, casa nostra non ci sarebbe più”. Penso alla fatica fatta fin qui da Francesco a parlare di emozioni, soprattutto di sentimenti negativi quali la rabbia e la gelosia. Lavoriamo insieme sulla relazione genitori/figlio. La sua tensione emotiva si appronta sul rapporto con il padre.
Sceglie, ancora di Savinio, Padre e figlio, del 1947.
Dice: “È falsa, non mi ha quasi mai toccato… giocava con Valeria (la sorella, n.d.r.), facevano la lotta sul divano, ridevano… ma me non mi toccava mai… solo nel viso siamo noi… due punti interrogativi… due bluff”. Decido di approfondire con lui la relazione padre/figlio e la corporeità. Alla luce di quanto emerso, ritengo opportuno l’invio della famiglia in terapia familiare. Concordo con Francesco l’opportunità di una seduta allargata ai familiari per predisporre l’invio. Alla seduta si presentano, oltre Francesco, padre, madre e sorella. Francesco inizia a parlare delle sue difficoltà relazionali, in particolare con il padre, e di quanto si sia sentito solo e rifiutato. Il padre scoppia in lacrime e chiede di parlarmi da solo. Faccio notare che non posso, che non servirebbe perché quello che mi dice sarebbe un segreto tra me e lui e io non potrei riutilizzarlo in terapia, che la famiglia non si fiderebbe più di me, tanto meno Francesco. Ma lui insiste, è disperato, chiede ai suoi familiari di dirmi che posso ascoltarlo da solo.
Io sono in lotta con il “protocollo”, sono combattuta tra il rispetto dell’ortodossia e la situazione contingente. Decido di chiedere al resto della famiglia se mi autorizza ad ascoltare il padre da solo.
I familiari accettano e ci lasciano soli; li faccio accomodare in sala di attesa. Rimasti soli, il padre riesce a dire che è stato abusato dal proprio padre da quando aveva sette anni fino a quando ne aveva dodici, età in cui lo ha minacciato di dire tutto alla madre, interrompendo così gli abusi. Piange a lungo, dicendo che non ha mai toccato Francesco perché aveva paura, non sapeva come fare, temeva di essere intrusivo, riviveva i “suoi fantasmi”. Concordiamo di far rientrare la famiglia e che lui parlerà di questo segreto. La seduta si conclude con un doppio invio, della famiglia e del padre in terapia. Proseguo il lavoro con Francesco e l’immagine che sceglie è di Clemente, Rudo, del 1981.
Dice: “Non sapevo cosa c’era, ma qualcosa c’era ( riferendosi al rapporto con il padre,n.d.r.) … era strano il nostro modo di stare insieme… lontano lontano ma minacciosa… quante volte ho avuto paura che tra noi potesse succedere qualcosa di brutto… tanto brutto… invece era successo a lui”. Penso al dolore del padre e al dolore del figlio, lavoro con Francesco sulla relazione con il padre e con i ricordi che ha del nonno paterno, deceduto da sei anni. Esito del lavoro è una visita congiunta di lui e del padre insieme al cimitero, sulla tomba del nonno. Intanto gli attacchi di panico sono notevolmente ridotti, anche se perdurano gli stati ansiosi. La successiva immagine scelta è di Chagall, Il violinista, del 1923. Francesco dice: “Sono io che suono la colonna sonora della mia famiglia… il babbo ci ha provato ma era debole… forse era troppo piccolo quando è successo tutto… e quello è il nonno… forse ora riusciremo a lasciarlo andare”. Noto il violinista sospeso a mezza aria, il volto e una mano nere, la scala appoggiata all’albero. Lavoriamo insieme sui progetti per il futuro, tra desiderio di appartenenza e ricerca dell’autonomia.
Le immagini successive sono:
Fig. 7 – Kirchner, Cucina di montagna, 1881.
Fig. 8 – Bazille, Scena d’estate, 1869
È evidente il desiderio di Francesco di andare a vivere da solo e di sviluppare contatti con il mondo gay, in una dimensione ludica e di solidarietà tra pari. Intanto Francesco prosegue con gli esami, adesso ha 21 anni, gli stati d’ansia sono quasi del tutto scomparsi, si guarda intorno con insistenza desiderando di innamorarsi. L’immagine scelta è di Tamara De Lempicka, Il Conte Von Karaian, del 1921.
Dice: “Mi piace, vorrei un uomo così…Maschio ed elegante…”. Penso che l’uomo dell’immagine è evidentemente più grande di Francesco,ì quasi un padre, ed evidentemente virile. Lavoriamo insieme sulla relazione di coppia e sull’identità di genere di Francesco all’interno della coppia, sul distinguere richieste di coppia da richieste di tipo genitoriale. La terapia si avvia verso la conclusione. Di lì a breve Francesco inizia una relazione con Eugenio, uomo di 38 anni, stilista presso una nota “maison” fiorentina. La terapia si conclude poco dopo l’inizio della loro convivenza.
2.3. Il caso di Elena e Marco
Elena e Marco, rispettivamente 34 e 39 anni, si presentano al mio studio su invio dell’andrologo di lui per un sopraggiunto problema di impotenza; sono sposati da 6 anni e non hanno figli. Entrambi architetti, lavorano insieme nello studio di lui. Elena si occupa di rapporti con la clientela e di interior designer, Marco di progettistica perl’edilizia. Lo studio, avviato dal padre di Marco, è un noto studio di architettura. Nello staff figurano diversi altri architetti, mentre il fratello di Marco, Alessandro, maggiore di 6 anni, anch’egli architetto, ha aperto uno studio in proprio. Nel corso della terapia emergerà che tra i due fratelli, Marco è stato il prescelto dal padre alla successione nella conduzione dello studio di famiglia. Elena, figlia unica, proviene da una famiglia agiata di commercianti di tessuti. Il padre possiede un lanificio ed è il presidente di una squadra di calcio. Niente architettura in famiglia. In prima seduta la coppia mi riferisce di un sopraggiunto problema di impotenza, presentatosi da circa 1 anno e mezzo. Al riguardo Marco manifesta tutta la sua frustrazione. Precisa che l’esordio del problema è stato accompagnato da progressivo calo del desi derio sessuale, pur affermando che i suoi sentimenti per Elena sono immutati e che non ci sono altre donne nei suoi pensieri.Elena a sua volta esprime la sua frustrazione e la sua infelicità, riferendo dei molteplici tentativi fatti per risolvere il problema, dai tentativi di dialogo al prestare più attenzione a Marco, al ricorso ad abbigliamento hard ed alla visione congiunta di films. Entrambi riferiscono che l’uso di supporto farmacologico viene vissuto malamente da tutti e due a tal punto che, dopo qualche tentativo, di comune accordo hanno deciso di rinunciarci e, con il supporto dell’andrologo, hanno deciso di iniziare una psicoterapia. Nella prima tranche di terapia, lavoriamo sulla storia e l’identità della coppia e sulle rispettive famiglie di origine. In questa fase la raccolta della storia avviene per mezzo del canale verbale. L’attenzione del terapeuta è centrata sui pattern comunicativi e sul linguaggio non verbale, sia del partner che sta parlando, sia del partner che ascolta. Successivamente, quando ritengo che il canale verbale sia ormai saturo e che la raccolta della storia della coppia sia sufficiente, utilizzo le immagini d’arte. Chiedo ad entrambi di scegliere ciascuno un’immagine che rappresenti la loro coppia. Marco sceglie il quadro di Giorgio De Chirico, Ettore e Andromaca, del 1917.
Lascio che le immagini risuonino dentro me, sulla base delle notizie che ho della loro storia, utilizzando il mio Sé, la mia storia di terapeuta, il mio stile relazionale. Rifletto. Mi colpiscono la presenza immota e silente dei due manichini, che pur sono abbracciati, lei protesa alla relazione, lui con la testa piegata verso di lei, in atteggiamento di protezione e di ascolto, ma anche di implicito appoggio. Elena sceglie la scultura di Giorgio De Chirico, Gli archeologi, del 1966. Lascio che le immagini risuonino dentro di me. Mi colpiscono i lunghi busti dei due corpi abbracciati. Quello di lui con una sorta di caverna o di ingresso all’interno, quello di lei con una sorta di tempio, subitanei rimandi ai Lari ed ai Numi familiari. Di nuovo le due teste si toccano, quella di lei appoggiata a quella di lui, le braccia forti di entrambi poggiate rispettivamente l’uno sulla spalla dell’altro e sul sedile, le gambe cortissime ed i piedi, anche in questa immagine, nudi. Lascio che le immagini stimolino le mie riflessioni, che attivino in me connessioni ed ipotesi, quale terzo sistema nel setting della terapia. Quale terapeuta ho la consapevolezza che tutto ciò che sento e che vedo è frutto della relazione, mi focalizzo quindi sulla capacità di riflessione del Sistema visto come una totalità, sulla possibilità di interrogarmi sulle mie intuizioni, sulle mie ipotesi, sulle mie descrizioni, dando luogo a descrizioni di descrizioni, a storie, a narrazioni che diventano domande e stimolano nei pazienti “altre” storie, storie diverse da quelle che si sonoì sempre narrati, storie che non hanno mai “visto”, se non per mezzo di un’immagine che ha dato corpo ad una possibile “altra” storia. Successivamente chiedo ad Elena di “leggere” l’immagine scelta da Marco e viceversa. Elena dice “Siamo noi, la nostra vita per lo studio e l’architettura, tanti progetti, tanta vita, tante idee, ma poi, di fatto, siamo sempre là dentro”. Marco dice “Elena e il suo fare della nostra coppia un tempio, un santuario dal quale escludere tutto e tutti e io, con un buco nero grande così, che, per quanto mi sforzi, non riesco mai a colmare”. Lavoriamo su quanto emerso, sulle emozioni che sia l’uno che l’altro hanno provato al commento ricevuto dal proprio compagno all’immagine che hanno scelto, sui vissuti che sottendono la scelta di quelle immagini e che senso essi abbiano nella storia relazionale della coppia. Emerge come Marco si senta costantemente in colpa nei confronti del fratello Alessandro, con il quale ha avuto un buon rapporto fino a quando il padre lo ha scelto al posto del primogenito per la successione nello studio familiare. I rapporti tra i fratelli si sono rapidamente raffreddati ed allo stato attuale essi non si vedono da più di due anni. Marco dice di non aver fatto abbastanza perché ciò non accadesse. Riesce a dare voce anche al senso di colpa nei confronti della sua famiglia. Affidare a Marco lo studio ha comportato per i genitori la perdita dei rapporti con il figlio maggiore e Marco sente di non fare mai abbastanza per compensare il padre della fiducia accordatagli e per lenire il dolore ed il vuoto che l’allontanamento di Alessandro ha provocato ai suoi genitori. Elena, piangendo sommessamente, dice di quanto la famiglia del marito sia costantemente nella vita della loro coppia, come lei non desideri “un tempio” per la loro coppia, ma “semplicemente uno spazio neutro dove essere soltanto noi due, io e te, non architetti, non fratello di… e figlio di…, non stravolti da 12 ore di lavoro in studio perché… non è mai abbastanza”. Lavoriamo insieme sulla lettura incrociata delle scelte delle immagini ed entrambi si dicono di comprendere la condizione e le emozioni dell’altro, ma di non saperne uscire. Chiedo che scelgano un’immagine che rappresenti come si sentono nella coppia.
Marco sceglie:
Fig. 11 – Egon Schiele, Autoritratto con mano sulla guancia, 1910
Mi colpisce l’espressione triste, addolorata, quasi disperata dell’uomo, un occhio semichiuso, la testa reclinata su un lato e, non essendo un’immagine di coppia, senza appoggio. Noto la mano poggiata al volto, in un gesto di desolazione, l’altra mano poggiata sul ventre, a protezione, le dita centrali lievemente dischiuse. Queste sono le mie impressioni. Non sono sempre le stesse con tutti i pazienti anche se l’immagine scelta è la stessa. Le mie impressioni sono legate alla storia dei pazienti ed alla relazione che abbiamo costruito insieme. Le immagini risuonano diversamente dentro di me, così come è sempre diverso il paziente che ho davanti. Elena sceglie un dipinto di Alberto Savino, Annunciazione, del 1932. Mi risuona immediatamente il senso di intimità violato, la posizione del194 le donna sulla sedia, la testa reclinata di lato, le spalle ricurve, le braccia appoggiate in grembo, ma con le mani che non si toccano, lo sguardo fisso, quasi inquisitore dell’uomo alla finestra. Medito a lungo poi, dando voce a quanto l’immagine ha stimolato in me, chiedo: “Da quanto tempo suo suocero vuole questo da lei?”. Sento di rischiare molto con questa domanda. L’intuizione è dovuta alla connessione tra una serie di indicatori che Elena aveva manifestato nel corso del racconto della storia di coppia (impercettibile disagio mentre parlava dello studio del suocero e del suocero, labbra serrate mentre Marco parlava di suo padre, accurato evitamento di parlare del suocero se non su precisa domanda, linguaggio non verbale di disconferma del valore del suocero come uomo mentre Marco tesseva le lodi come uomo, come padre e come professionista) e quanto è risuonato dentro me alla visione dell’immagine. Quale uomo può chiedere questo ad Elena? Suo padre? Elena ha parlato serenamente della sua famiglia di origine e del padre, con linguaggio verbale e non verbale congruo. Il cognato? Elena non lo vede da due anni, non ha quasi fatto menzione di lui e quando ne ha parlato lo ha fatto senza disagio. Un collega? Ha parlato superficialmente dei colleghi e non ha manifestato alcun imbarazzo o cambiamento emotivo quando ne ha parlato Marco. Rimane soltanto il suocero, figura che avevo già cercato di indagare nella prima parte della terapia, indagine alla quale Elena aveva fatto resistenza, quasi non volesse dare corso neppure lei ai suoi pensieri. Avevo tenuto per me il “nodo”, pensando di tornarci per mezzo dell’uso delle immagini, magari chiedendo di scegliere un’immagine che rappresentasse i rapporti con la famiglia di origine. Non è stato necessario. La risposta è giunta prima. Elena scoppia in lacrime e piange a lungo, senza poter parlare. Alla fine, tra i singhiozzi, dice di sentire fortissima la presenza del suocero tra lei e il marito. L’uomo, formale e rispettoso nei rapporti con la nuora, è percepito da Elena come fortemente intrusivo. Vivo è il disagio che le provoca andare a pranzo dai suoceri e vivo è il disagio che vive quando il suocero viene in studio e le chiede dei suoi lavori. Dice di evitare in ogni modo di rimanere da sola con lui e sente che tutto ciò si ripercuote nel suo approccio con Marco e sull’intimità della coppia. Marco fatica ad ascoltare, è devastato dai pensieri che gli vengono, alterna momenti in cui vorrebbe un chiarimento con il padre, a momenti in cui chiede ad Elena se è pazza ed a me se sono certa che sua moglie non sia una visionaria. La relazione terapeutica vive un momento cruciale. Elena si pente di aver parlato con franchezza. Marco si rifiuta di credere possibile un fatto simile. Penso all’autoritratto che ha scelto e prima ancora al “buco” nel busto della figura nella scultura di De Chirico. Gli dico “la sua desolazione e la sua disperazione vengono assai più da lontano dell’assunzione della direzione dello studio di suo padre”. Marco tace a lungo. Poi dice “è vero ho paura da tanto tempo. Alla fine ho avuto paura di aver paura. Io sentivo, sentivo la tensione nell’aria ed il disagio di Elena, ma non volevo sentire… non volevo vedere… non volevo crederci”. Lavoriamo su questo nuovo aspetto, sulla membrana di coppia, sui confini. Intanto Marco ed Elena hanno parzialmente ridotto gli orari di lavoro allo studio, Marco si è iscritto ad un corso di patente nautica, Elena ad un corso di sceneggiatura. Non vanno più a pranzo dai genitori di lui. Alla undicesima seduta chiedo di scegliere un’immagine che rappresenti ciò che desiderano per l’altro nella coppia. Visti i cambiamenti avvenuti ed il percorso avviato, mi sembra opportuno introdurre il tema del desiderio di ciò che fa stare bene l’altro e la progettualità nell’ambito della coppia. Mi interessa verificare quanto l’uno è capace di “vedere” l’altro, di essere consapevole dei desideri dell’altro, di sentirsi parte in causa in funzione del benessere del partner.
Marco sceglie:
Fig. 13 – Gustav Klimt, Danae, 1907-08
Mi colpisce l’aria appassionata e rapita della donna, raccolta in posizione semi fetale a ricevere la pioggia d’oro, il seme, la continuità.
Elena sceglie:
Fig. 14 – Vincent Van Gogh, Il mietitore, 1889
Mi colpiscono i colori del quadro, i gialli e gli oro, il sole pieno nel cielo, il mietitore che si accinge a raccogliere le sue messi. Ricchezza, abbondanza, luce piena, il ritmo cadenzato della mietitura ed il rispetto del  tempo della natura. Lavoriamo su come risuonano le immagini scelte dall’uno nell’altro. Elena gioisce all’idea del seme, desidera un figlio da tempo, ma non ne parlava data la problematica che ha portato la coppia in terapia, ovvero l’impotenza di Marco che perdurava da più di un anno. Si commuove vedendo quanto Marco la vede, ha presente il suo desiderio. Marco tace. Alla fine, con poche parole conferma il suo bisogno di raccogliere ciò che ha a lungo coltivato. Aggiunge “soltanto dopo la mietitura è possibile una nuova semina”. Lavoriamo sul rispetto dei tempi di entrambi (lavoro-riposo per Elena; dentro-fuori dallo studio per Marco; appartenenza-individuazione rispetto alla famiglia di origine per entrambi); sulla sessualità della coppia (il tempo del desiderio, la durata del rapporto, l’atmosfera giusta), sul progetto della genitorialità. Tocchiamo il tema della genitorialità, della stirpe e del genere. Lavoriamo sulla membrana di coppia e sulla “tenuta” rispetto a nuove possibili invasioni legate alla nascita di un erede, metaforicamente conteso fra due stirpi, quella materna e quella paterna. Intanto i rapporti sessuali sono nuovamente ripresi, tra successi e qualche flop, senza l’ausilio di farmaci. Marco ha preso la patente nautica, trascorre il fine settimana in barca+ con Elena, che sta scrivendo la sua prima sceneggiatura. Proseguiamo il lavoro sull’intimità di coppia e sulla complicità. Chiedo di scegliere un’immagine che rappresenti la loro coppia oggi.
Marco sceglie:
Fig. 15 – Egon Schiele, Abbraccio, 1917
La coppia presa in un abbraccio appassionato, lui che sussurra all’orecchio di lei, lei che accompagna la voce con il gesto della mano. La fusione dei corpi e dei pensieri.
Elena sceglie Marc Chagall, Sulla città, del 1914-18.
Elena dice: “Noi, liberi di andare, liberi di fare, liberi di ascoltarci e di ascoltare i nostri desideri”. Noto che nel quadro lei accetta che lui la conduca, sempre che lei si tenga a lui, ma con la mano libera, protesa nel volo, senza timore. Ritengo che la terapia sia finita. La mia valutazione è dovuta a diversi indicatori: il problema per cui la coppia è venuta in terapia (impotenza di Marco) è ormai superato; il rapporto all’interno della coppia si è ristabilito; la membrana di coppia si è ricomposta ed irrobustita, ridefinendo i rapporti con l’esterno (la famiglia di origine, il lavoro, il tempo libero); la progettualità della coppia è rivolta nella stessa direzione (un figlio). Elena non concorda. Ha paura di una ricaduta. Teme il rientro della famiglia del marito nelle dinamiche di coppia. Marco è sereno, sente che hanno capitalizzato tanto, che hanno “immagazzinato abbastanza”.
Elena dice “E poi io non sono nemmeno incinta”. Ritengo che la terapia sia conclusa, che possano continuare il cammino da soli sulla linea tracciata insieme. Li congedo confermando che sono comunque a loro disposizione se avessero nuovamente bisogno di me. Questo Natale – due anni circa dalla fine della terapia, due anni nel corso dei quali non ho più avuto loro notizie – ricevo un biglietto di auguri.
È un’immagine di Egon Schiele La Famiglia, 1918.
È firmato Marco, Elena e Thomas.
3. Conclusioni
Nel corso della trattazione emerge inequivocabilmente la necessità di oltrepassare le difese proprie dell’individuo, alcune delle quali per lui inconsapevoli, mediante tecniche canalizzate prevalentemente sul linguaggio non verbale. Accade spesso che il terapeuta riscontri dissonanze tra ciò che il paziente riporta verbalmente e ciò che invece cela internamente, spesso in maniera inconsapevole. La visione di un’immagine, secondo quanto asserito da Littmann, consente l’accesso al mondo interno in quanto “ il potere della metafora risiede molto chiaramente nella sua capacità di raggiungere una componente affettiva della personalità che comunemente è troppo ben difesa per essere raggiungibile.” Confido che questo contributo abbia stimolato diverse riflessioni e – perché no? – il desiderio di approfondire l’uso delle immagini d’arte nel lavoro clinico di coppia, individuale e familiare. Nonostante ciò ritengo che debbano essere ancora indagati molti interrogativi, tra i quali: Quale uso del Sé del terapeuta nell’ambito dell’uso delle immagini d’arte in terapia?
Quale ulteriore protocollo, più dettagliato, relativo all’uso delle immagini d’arte in terapia?
La strada della ricerca ci attende.
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